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L'illegittimità costituzionale dell'art. 3 comma 2 del decreto legislativo 23/2015

Riteniamo ci siano profili di irragionevole disparità nelle conseguenze sanzionatorie previste dall'art. 3 c.2 del d. lgs. 23/2015 per i licenziamenti illegittimi per insussistenza del g.m.o. rispetto a quelli illegittimi per insussistenza del motivo soggettivo. Questa è la formulazione della eccezione di incostituzionalità sollevata nei ricorsi da noi predisposti che riteniamo utile condividere.

avv. Pier Luigi Panici e avv. Matteo Panici


La insussistenza del motivo posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e il diritto alla reintegrazione.

L’illegittimità costituzionale dell’art. 3 comma 2 del d. lgs. 23/2015 nella parte in cui prevede la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso in cui in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa” e non anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Si chiede a questo Giudice di applicare la tutela prevista dal d.lgs. 23/2015.

Sul punto, si osserva che il d. lgs. 23/2015 prevede all’art. 3 comma 1 quanto segue: “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.

Il successivo comma 2, applicabile irragionevolmente solamente ai licenziamenti intimati per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, stabilisce quanto segue: “ Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione…in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non puo' essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto…”

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Il legislatore ha previsto quindi un regime sanzionatorio differente a seconda che il licenziamento sia intimato per giustificato motivo soggettivo o per giustificato motivo oggettivo. Infatti, nel primo caso è prevista la tutela reale attenuata (ossia la reintegrazione oltre ad una indennità risarcitoria corrispondente ad un massimo di dodici mensilità) quando “sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”; nel secondo caso, invece, è prevista la sola tutela obbligatoria (ossia una indennità risarcitoria nella misura massima di trentasei mensilità).

Tale differenza di tutela applicabile è del tutto irragionevole, non essendo supportata da alcuna motiva logica, e viola numerosi nome costituzionali.

In particolare, vengono violati i seguenti precetti costituzionali:

- art. 3

- art. 24

- artt. 1, 4 e 35 Cost

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La rilevanza della questione nel presente giudizio

Nel caso in cui il Giudice ritenesse applicabile nel presente giudizio la normativa di cui al Jobs Act (e non le norme di diritto comune), la ricorrente avrebbe diritto solamente ad una indennità risarcitoria pari ad un massimo di trentasei mensilità, essendo il licenziamento stato intimato per giustificato motivo oggettivo.

E’ pacifico che alla presente fattispecie debba applicarsi l’art. 3 del d.lgs. 23/2015, in quanto la ricorrente è stata assunta in data successiva al 7 marzo 2015 e atteso che l’azienda occupa più di 15 dipendenti.

È evidente, nel caso di specie, la insussistenza del fatto materiale posto alla base del recesso: infatti la sede legale della società non è stata chiusa, come risulta dalla visura camerale in atti, estratta dal Registro delle Imprese dopo oltre 6 mesi dal licenziamento, dalla quale si evince chiaramente che la sede è rimasta la medesima.

Ma, nonostante la falsità (ovverosia la “insussistenza”) della motivazione del licenziamento, la ricorrente avrebbe diritto alla sola tutela obbligatoria e non al suo posto di lavoro…solamente perché il recesso è stato qualificato, dal datore di lavoro, per “giustificato motivo oggettivo”.

La questione di legittimità costituzionale è pertanto sicuramente rilevante nel presente giudizio.

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L’impossibilità di una interpretazione conforme alla Costituzione

Il dato testuale della norma è univoco, e non ammette alcuna possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata.

Infatti, il legislatore ha inteso applicare la tutela reale “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”.

L’avverbio “esclusivamente” non ammette alcuna altra interpretazione: solo nella ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo si applica la tutela reale (seppur attenuata), e non anche in quella del licenziamento per motivo oggettivo. Una disparità irragionevole nel regime sanzionatorio che non è supportata da alcuna motivazione logica.

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La non manifesta infondatezza della questione

Si vuole premettere subito che il contrasto con la Costituzione non si ravvisa nelle scelta del legislatore di prevedere, in caso di licenziamento ingiustificato, anche la tutela obbligatoria, pari ad una indennità commisurata sino ad un massimo di trentasei mensilità; anche perché il Giudice delle Leggi più volte ha affermato che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale» (sentenza n. 148 del 1999), basta che sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991).

Invece, il contrasto alla Costituzione si ravvisa nella irragionevole diversificazione delle tutele tra il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, per il quale è prevista in caso di “insussistenza del fatto materiale” la tutela reale, e quello oggettivo, per il quale è invece prevista esclusivamente la tutela obbligatoria.

Vien da pensare che sia facile per il datore di lavoro “sbarazzarsi” definitivamente di un lavoratore: basta infatti per questo intimare un licenziamento per motivo oggettivo (inventandosi di sana pianta delle “ragioni economiche, produttive ed organizzative” non rispondenti al vero), anche con una motivazione apparente e “insussistente” (come è successo nel caso di specie).

Davvero non si comprende la ratio sottesa a tale scelta legislativa. Perché il legislatore abbia stabilito due differenti sanzioni, che conseguano alla diversa qualificazione che il datore voglia dare al recesso (per giustificato motivo soggettivo o oggettivo), nonostante la insussistenza materiale del motivo posto alla base del recesso, non è dato saperlo.

Si ravvisa, quindi, una irragionevole -e inspiegabile- differenza sanzionatoria rispetto a due diverse ipotesi omogenee: licenziamento per giustificato motivo soggettivo e oggettivo ove sia “insussistente il fatto materiale” (ovvero il motivo posto alla base del recesso).

In altre parole, tale disposizione introduce un regime sanzionatorio differenziato a seconda della tipologia del licenziamento, anche nell’ipotesi in cui sia “insussistente il fatto materiale” posto alla base del recesso.

Il legislatore ha ampio margine nel determinare il regime sanzionatorio conseguente ad un licenziamento illegittimo, purché la sanzione sia dissuasiva, ma l’apparato di tutele deve avere una coerenza di sistema, che è assente nel Jobs Act.

Sul punto, è opportuno riportare le parole della Coste Costituzionale, che con la sentenza n. 59/2021 ha affermato che: “8.– Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

I principi di eguaglianza e di ragionevolezza sono stati violati dal legislatore introducendo un diverso regime sanzionatorio nel caso in cui il licenziamento sia intimato o per giusta causa/giustificato motivo soggettivo o per motivi economici. Vi è quindi una irragionevole differenza di disciplina (e di tutela) a fronte di una parità del vizio, ossia l’“insussistenza del fatto materiale”.

Andiamo ad analizzare i vizi cui incorre l’art. 3 c.2 del d.lgs. 23/2015.

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1° VIZIO: contrasto con art. 3 Cost. per ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio tra l’ipotesi di licenziamento per giusta causa/giustificato motivo soggettivo e quella del giustificato motivo oggettivo.

Vi è un trattamento irragionevolmente discriminatorio tra situazioni del tutto omogenee tra loro.

Una volta che il legislatore ha scelto di disporre la tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo ove sia “insussistente il fatto materiale”, deve disporre la medesima tutela anche nel caso di licenziamento per motivi economici ove sia “insussistente il fatto materiale”: si tratta infatti di situazioni identiche nei loro elementi costitutivi.

E’ inspiegabile la ratio sottesa alla norma di cui si dubita la costituzionalità: non è dato comprendere, infatti, perché il legislatore abbia voluto sanzionare, nella ipotesi di “insussistenza del fatto materiale” il datore di lavoro con la reintegrazione e il risarcimento dei danni, quando trattasi di licenziamento per motivo soggettivo, e solo con il risarcimento dei danni, quando trattasi di licenziamento per g.m.o.

L’art. 3 comma 2 del d. lgs. 23/2015 viola certamente il canone di ragionevolezza, in quanto, in caso di “insussistenza del fatto materiale”, vi è la tutela reale solo “esclusivamente” se il recesso sia qualificato, dal datore di lavoro, per “motivo soggettivo” (e non anche per “motivo oggettivo”).

Non è dato comprendere il fondamento logico-giuridico di tale diverso trattamento: infatti, la violazione è sempre la stessa (ovverosia la “insussistenza del fatto materiale”), ma in base alla qualificazione del recesso varia la tutela (reale o obbligatoria).

Nemmeno può sostenersi che il motivo soggettivo ed il motivo oggettivo siano due motivi di licenziamento diversi nella loro struttura.

O meglio, questo è sicuramente vero quando il Giudice accerti in giudizio la legittimità del recesso in quanto siano sussistenti il motivo soggettivo o oggettivo del recesso; ma, a fronte della inesistenza del motivo soggettivo ed oggettivo, differenziare le tutele non ha certamente alcun senso logico-giuridico.

E infatti, qualora sia insussistente il fatto materiale posto alla base del licenziamento, che quest’ultimo sia qualificato arbitrariamente dal datore di lavoro come per motivo soggettivo o oggettivo poco importa: non può esservi, nel nostro ordinamento giuridico, una diversificazione delle tutele sanzionatorie che dipenda esclusivamente dalla volontà datoriale (che “etichetta” un licenziamento per motivo soggettivo o oggettivo a suo piacimento, poiché sempre di “insussistenza” del fatto si parla).

Pertanto, qualora il legislatore abbia inteso assicurare al lavoratore licenziamento illegittimamente per giustificato motivo soggettivo per “insussistenza del fatto materiale” una tutela reale, tale tipo di tutela deve essere certamente assicurata anche al lavoratore licenziato per motivi economici con una motivazione del tutto “insussistente”.

Si sostiene, quindi, che non vi sia alcuna differenza tra un licenziamento intimato per motivo soggettivo o per motivo oggettivo, quando sia insussistente il motivo posto alla base dello stesso; inoltre, dalla qualificazione (spesso arbitraria) data dal datore di lavoro al recesso discendono, inspiegabilmente, tutele sanzionatorie differenti: in tale aspetto la coerenza del sistema delineato dal Jobs Act non regge.

Migliori parole di chi scrive sono state certamente spese dal Tribunale di Ravenna, che con ordinanza di rimessione del 06.05.2021 ha sollevato la questione della legittimità costituzionale dell’art. 18 7° comma l. n. 300/1970, nella parte in cui il Giudice “poteva” e non “doveva” reintegrare il lavoratore nel caso in cui fosse accertata la insussistenza del fatto posto a fondamento del solo licenziamento per g.m.o., mentre nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo il Giudice “doveva” applicare la tutela reale (tale questione di illegittimità è stata poi accolta dalla Corte Costituzionale): tali parole, nonostante siano state pronunciate con riferimento ad altra norma di legge, ben possono riferirsi anche all’articolo 3 c.2 del d.lgs. 23/2015 di cui si dubita la costituzionalità.

Così si è espresso il Tribunale di Ravenna: “ …Dunque, da questo punto di vista, si ha una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra l’ipotesi dei fatti soggettivi e quella del G.M.O. economico. Nemmeno basta ad evitare il confronto (e dunque ad escludere che all’omogeneità delle fattispecie debba conseguire omogeneità delle tutele) tra motivo soggettivo e motivo economico sostenere che si tratta di due motivi di recesso strutturalmente diversi. Questo è sicuramente vero – oltre che nella astratta lettera della legge – di fronte a due motivi di recesso positivamente accertati come sussistenti all’esito di un completo procedimento giurisdizionale: in tale caso correttamente gli stessi producono gli effetti giuridici che l’ordinamento riconnette loro (p.e. la giusta causa esclude l’obbligo di preavviso). Ma a fronte dell’inesistenza accertata ad opera del giudice, distinguere ancora tra motivo soggettivo ed oggettivo, soprattutto al fine di differenziarne le tutele (e in specie la reintegra), risulta ingiustificato e discriminatorio…

Se i "fatti" – siano essi giuste cause o G.M.O. – non sussistono, la tutela deve essere la stessa, attribuendosi altrimenti al datore di lavoro la insindacabile facoltà, nel momento in cui decide su quali fatti basare l’atto espulsivo, ma soprattutto su come qualificare gli stessi, di condizionare, anche ex post, la tutela spettante al lavoratore. Tra l’altro, molto spesso, nella pratica i fatti soggettivi ed oggettivi sono tutt’altro che così nettamente separati. Ad anzi gli aspetti soggettivi rilevano anche nell’ambito dei "fatti" di G.M.O., così come gli aspetti organizzativi rilevano anche in tema di giusta causa. A tale ultimo riguardo si consideri, infatti, come anche i profili soggettivi del licenziamento riguardano la funzionalità dell'organizzazione, in relazione alle conseguenze dell'inadempimento del lavoratore sul suo regolare andamento: il datore di lavoro può bene decidere di perdonare fatti che potrebbero integrare una giusta causa di licenziamento avendo riguardo sia a prognosi di futuro adempimento da parte del lavoratore, sia a prevalenti e contingenti necessità organizzative (p.e. insostituibilità di un lavoratore in un determinato momento in una determinata organizzazione)…”.

Dello stesso tenore la ordinanza di rimessione costituzionale del medesimo Tribunale di Ravenna n. 101 del 07.02.2020. Anche in questo caso l’oggetto dell’ordinanza era la versione attuale dell’art. 18 7° comma della l. n. 300/1970, ritenuto dal Giudice incostituzionale in quanto nel licenziamento per g.m.o. era necessario, per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, che il fatto posto alla base del recesso fosse “manifestamente” insussistente, mentre nel licenziamento per motivi soggettivi era necessaria la semplice “insussistenza”; anche da tale ordinanza possono trarsi degli spunti utili per il caso che ci riguarda.

Difatti, così si è espresso il Tribunale di Ravenna, iniziando la sua analisi col raffrontare le due ipotesi di licenziamento per motivo soggettivo ed oggettivo: “l confronto permette di evidenziare un trattamento irragionevolmente discriminatorio tra situazioni identiche.

Si tratta in entrambi i casi di fattispecie estintive per volontà datoriale.

Si tratta di due regimi sanzionatori entrambi relativi all'ipotesi di accertamento in giudizio dell'inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento.

Dunque, due licenziamenti in ordine ai quali è stato accertato che manca del tutto il fondamento, la ragione giustificativa…

Tra un licenziamento per G.M.O. fondato su un fatto (manifestamente) inesistente e un licenziamento per G.C. fondato su un fatto (semplicemente) inesistente non vi e' una differenza ontologica, naturalistica.

È solo la volontà del datore di lavoro a qualificare un licenziamento per G.C. o per G.M.O.

E tale mera e insindacabile (alla fonte) volontà datoriale non può fondare la differenza di trattamento tra due licenziamenti entrambi fondati su fatti accertati come inesistenti.

Qui la norma di legge ha errato nel porre a fondamento di una distinzione estremamente rilevante in punto della tutela del lavoratore, non già una determinata tipologia di vizio, oppure il dato proveniente da un accertamento oggettivo compiuto dal giudice, bensì una mera qualifica, una etichetta, che solo il datore di lavoro può apporre al proprio atto.

Tale etichetta diventerebbe intangibile, anche ex post, se nemmeno l'accertamento da parte del giudice che il motivo oggettivo posto a fondamento dell'atto espulsivo era pretestuoso, fosse in grado di riavvicinare (alla foce), le tutele previste per il licenziamento per G.M.O. alle tutele previste per il licenziamento per G.C.

Non può, dunque, essere (come al contrario avviene nell'attuale sistema dei commi quarto e settimo dell'art. 18) che la qualifica del licenziamento come per giustificato motivo oggettivo ad opera del datore di lavoro, anche nella prospettiva ex post dell'accertamento dell'inesistenza del motivo fondante lo stesso, possa continuare comunque a regolarne gli effetti, importando una diversa disciplina, rispetto ai licenziamenti per giusta causa.

Ne consegue che un licenziamento di cui si è accertata in giudizio l'insussistenza del fatto fondante è semplicemente un licenziamento privo di giustificazione, a prescindere dal motivo formale (giusta causa o giustificato motivo che sia) addotto dal datore di lavoro per giustificarlo.

Ne consegue, ancora, che l'accertamento dell'insussistenza del fatto deve condurre ad una considerazione unitaria del fenomeno del licenziamento dal punto di vista sanzionatorio, senza possibilità di discriminare tra GC e GMO, altrimenti sarebbe la semplice qualificazione data dal datore di lavoro al momento del licenziamento a importare la scelta (da parte del datore di lavoro) della tutela esperibile in favore del lavoratore, scelta che va rimessa esclusivamente alla legge (e che, ovviamente, deve essere la stessa per vizi identici, ossia per licenziamenti il cui fatto costitutivo sia stato dimostrato come del tutto infondato).

Nel sistema attuale, al contrario, l'art. 18, settimo comma prevede che sia sufficiente la qualifica data dal datore di lavoro al proprio atto unilaterale espulsivo, per determinare di per se' - in base alla legge che si assume incostituzionale - e a parità di inesistenza dei presupposti legittimanti il licenziamento, un trattamento sanzionatorio deteriore (rispetto a quello previsto per la G.C.) per il lavoratore, trattamento che si realizzata mediante l'applicazione di una serie di ostacoli alla sanzione restitutoria altrimenti applicabile in favore del lavoratore.

Con la conseguenza che risulta previsto dalla stessa disposizione normativa un meccanismo elusivo, un escamotage, volto a penalizzare ingiustificatamente le ipotesi di reintegra e che si impernia sulla mera qualifica datoriale circa la natura di G.M.O. del licenziamento.

Il potere discrezionale di scelta tra reintegra e indennizzo risulta ancora meno giustificato se si guarda al fatto che, in alternativa alla reintegra che gli spetta, il lavoratore puo' optare (e spesso opta, potendo farlo addirittura con la stessa proposizione del ricorso introduttivo) per una tutela solo monetaria (opzione per quindici mensilità).

Non vi può essere, infine, argomentazione contraria all'irragionevolezza del trattamento discriminatorio qui in esame, sulla base della discrezionalità dell'impiego della tutela reintegratori ad opera legislatore (il tema è quello della mancanza di copertura costituzionale per la reintegra).

Infatti, nel caso di specie si discute di trattamento discriminatorio tra una ipotesi che riconosce la reintegra ed una del tutto identica nei suoi elementi costitutivi, che (per il tramite del giudice) la può arrivare a negare.

Ne discende che se il legislatore adotta la sanzione della reintegra per alcune ipotesi, deve accettare gli effetti che derivano dall'inoculazione di una tale forma di tutela nel sistema, tra cui proprio la sottoposizione al vaglio costituzionale della creazione di ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche.

Nemmeno può esserci argomentazione contraria fondata sulla diversità del G.M.O. rispetto alla G.C., posto che, come detto, tale differenza puo' dirsi sussistente solo in ipotesi in cui tali motivazioni fondanti gli atti espulsivi siano sussistenti; laddove siano risultate (peraltro gravemente nel settimo comma) insussistenti, sono da qualificarsi quali meri atti datoriali illegittimi, indistinguibili tra loro da alcun punto di vista.

Qui la violazione dell'art. 3, primo comma della Costituzione (per essere due fenomeni uguali trattati in modo ingiustificatamente diverso) finisce per attingere anche l'art. 24 della Costituzione, posto che il diritto di azione del lavoratore viene ingiustamente sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria, di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla mera insindacabile (nemmeno ex post) volontà qualificatori datoriale.

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Giova inoltre precisare che la stessa Corte Costituzionale, proprio con riferimento al Jobs Act, con la sent. n. 150/2020 (con la quale ha dichiarato l’incostituzionalità del criterio sanzionatorio previsto dal Jobs Act ancorato alla sola anzianità di servizio), ha affermato che la disciplina dei licenziamenti, deve essere coerente e ragionevole nel suo insieme: “13.– L’art. 3 Cost. è violato anche sotto il profilo della ragionevolezza, che questa Corte, nell’àmbito della disciplina dei licenziamenti, ha declinato come necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro (sentenza n. 194 del 2018, punti 12.1. e 12.2. del Considerato in diritto).

Il legislatore, pur potendo adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi, è chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore.

L’adeguatezza deve essere valutata alla luce della molteplicità di funzioni che contraddistinguono l’indennità disciplinata dalla legge. Alla funzione di ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo si affianca, infatti, anche quella sanzionatoria e dissuasiva (sentenza n. 194 del 2018, punto 12.3. del Considerato in diritto).

In un prudente bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente rilevanti, l’esigenza di uniformità di trattamento e di prevedibilità dei costi di un atto, che l’ordinamento qualifica pur sempre come illecito, non può sacrificare in maniera sproporzionata l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto, peraltro accompagnato da vincoli e garanzie dirette ad assicurarne la trasparenza e il fondamento razionale”.

Ebbene, non si ravvisa alcuna coerenza nel sistema delineato dal Jobs Act, che sanziona diversamente due ipotesi identiche (licenziamento per giustificato motivo soggettivo e oggettivo ove sia accertata la “insussistenza del fatto materiale”).

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2° VIZIO: contrasto con l’art. 24 Cost.

Inoltre, l’art. 3 c.2 del d.lgs. 23/2015 è in contrasto con l’art. 24 Cost. laddove prevede una disparità di trattamento tra il licenziamento per giustificato motivo soggettivo e quello oggettivo: infatti, esclusivamente dalla qualificazione data dal datore al momento del licenziamento dipende la tutela sanzionatoria (reale o obbligatoria).

Il diritto di difesa, che è “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” varia a seconda della qualificazione che il datore di lavoro dà al recesso.

Tale profilo di illegittimità costituzionale va di pari passo con la violazione dell’art. 3 Cost., al quale è strettamente connesso.

Queste le parole spese dal Tribunale di Ravenna nella ordinanza di remissione costituzionale del 06.05.2021:

Appare integrare una violazione dell'art. 24 della Costituzione anche la circostanza - già esposta in relazione alla violazione dell'art. 3, primo comma della Costituzione - che la norma preveda che cio' che rilevi, al fine di individuare le tutele del lavoratore, sia il mero atto qualificatori adottato dal datore di lavoro dell'atto di licenziamento.

Senza che abbia alcun effetto l'accertamento in giudizio che quella definizione, quella etichetta, data dal datore di lavoro al proprio atto, era del tutto inesistente ed anzi era addirittura pretestuosa.

Cio' importa, a modestissimo avviso di chi scrive, una palese violazione dell'art. 24 della Costituzione.

La norma, al contrario, per l'ipotesi di accertamento in giudizio dell'inesistenza manifesta del motivo fondante il licenziamento, dovrebbe considerare semplicemente che si è di fronte ad un atto espulsivo del tutto illegittimo e provvedere, conseguentemente, prescindendo dall'etichetta impiegata (a questo punto si dovrebbe dire pretestuosamente) dal datore di lavoro.

E la tutela non potrebbe che essere - ex art. 3, primo comma della Costituzione - la stessa prevista per l'ipotesi identica in cui il giudice accerti che difetta il fatto posto a fondamento di un licenziamento per giusta causa, ossia la reintegra.

Qui, dunque, vi e' un incrocio di violazioni di norme costituzionali (art. 24 e 3, primo comma della Costituzione) da parte della disposizione in esame.”

3° VIZIO: contrasto con gli artt. 1, 4 e 35 Cost.: l’omesso bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti

L’art. 3 c.2 del d.lgs. 23/2015 si pone altresì in contrasto con gli artt. 1, 4 e 35 Cost., poiché vi è un irragionevole ed ingiustificato sbilanciamento della disciplina in favore del datore di lavoro; ed infatti, come abbiamo avuto modo di osservare precedentemente, la tutela applicabile dipende solo ed esclusivamente dalla qualificazione del recesso (per giustificato motivo soggettivo o oggettivo) data dal datore di lavoro, nonostante in entrambi in casi sia insussistente il fatto posto alla base dello stesso.

È evidente che il lavoratore venga enormemente penalizzato, qualora il datore di lavoro scelga arbitrariamente di licenziarlo etichettando il recesso per g.m.o., anche inventandosi una motivazione del tutto fantasiosa (insussistente, per l’appunto).

Si tratta, difatti, di due ipotesi identiche ed omogenee, e tale disparità di sanzioni non può esser supportata da alcun elemento razionale.

La scelta del legislatore di prevedere un sistema di graduazione delle tutele deve essere senz’altro rispettata; ma è in contrasto con tali articoli della Costituzione una disparità immotivata di situazioni omogenee, e che dipende solo ed esclusivamente dalle scelte, anche arbitrarie, del datore di lavoro.

Il sistema pensato dal Jobs Act è costruito, illegittimamente, su una rottura del principio di eguaglianza e solidarietà nei luoghi di lavoro.

Al riguardo, così si è espressa la Corte Costituzionale, che con la sent. n. 59/2021 (pronunciata con riferimento all’art. 18 c. 7 della l. n. 300/1970, ma certamente utile al caso di specie) così ha affermato: “L’art. 24 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost., sarebbe violato sotto due ulteriori profili.

Il diritto di azione del lavoratore sarebbe «ingiustamente sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria, di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla mera insindacabile (nemmeno ex post) volontà qualificatoria datoriale»

…8.– Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

9.– La disposizione censurata entra in conflitto con tali princìpi…

…L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).

Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici….”.

Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 59/2021 così ha affermato: “6.– Questa Corte è costante nell’affermare che il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.).

L’attuazione di tali principi è demandata alle valutazioni discrezionali del legislatore (fra le molte, sentenze n. 59 del 2021, n. 150 del 2020 e n. 194 del 2018), chiamato ad apprestare un equilibrato sistema di tutele.

Questa Corte ha tuttavia ribadito che il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui dispone, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 59 del 2021). La diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, nelle quali la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenza n. 59 del 2021; così anche sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

Nell’attuazione dei principi sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost., essenziale è il compito del giudice, chiamato a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge.

7.– La disciplina censurata si pone in contrasto con i principi richiamati.”

* * *

Si ha quindi una ingiustificata e irragionevole disparità di tutele fra l’ipotesi dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e quella del giustificato motivo oggettivo dichiarati illegittimi, quando sia “insussistente il fatto materiale” posto alla base del recesso.

Il legislatore, che come afferma la Corte Costituzionale, “è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza”, ha previsto la reintegrazione nella sola ipotesi del licenziamento per giusta causa quanto sia insussistente il fatto materiale, e non anche nella ipotesi di licenziamento intimato per g.m.o. dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto.

Tale scelta legislativa è incomprensibile: se avesse previsto la reintegrazione per una ipotesi, avrebbe dovuto prevederla anche per l’altra, trattandosi di due situazioni omogenee.

Tale differenza dipende solo ed esclusivamente dalla qualificazione, arbitraria, che il datore attribuisce al recesso.

Per i motivi su esposti, si chiede al Giudice la trasmissione degli atti del presente procedimento alla Corte Costituzionale affinché valuti se l’art. 3 comma 2 del d. lgs. 23/2015 sia costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 1, 3 primo e secondo comma, 4, 24 e 35 Cost., nella parte in cui prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento della indennità risarcitoria sino ad un massimo di dodici mensilità “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, e non anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale posto alla base del recesso

* * * *

Ciò premesso si ricorre al Tribunale del Lavoro di Roma ed eventualmente previa

eventuale remissione alla Corte Costituzionale affinché valuti se l’art. 3 comma 2 del d. lgs. 23/2015 sia costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 1, 3 primo e secondo comma, 4, 24 e 35 Cost., nella parte in cui prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento della indennità risarcitoria sino ad un massimo di dodici mensilità “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, e non anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale posto alla base del recesso

voglia accogliere le seguenti

conclusioni

…….

avv. Pier Luigi Panici e avv. Matteo Panici


Incostituzionalità art. 3 d.lgs. 23-2015 - Piero Panici e Matteo Panici
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